C’era Valeria, la capitana, e poi c’erano Giuseppe, Walter, Laura, Letizia, Romano, i due Stefano, Antonio, Benedetto, Demetrio, Efisia, Elisabetta, Enrico, Federico, Luciana, Marco, Paolo, Raffaella e Roberto. Infine c’ero io, Giorgio per gli amici, il decano del gruppo, vale a dire il più vecchio. Siamo partiti in 21 alla conquista del Selvaggio Blu, nel cuore dell’Ogliastra, in una Sardegna primordiale dove si ritorna indietro nel tempo, alle cose essenziali, per fare un trekking impegnativo che è andato ben oltre l’escursione.
All’inizio eravamo quasi tutti perfetti sconosciuti. Come affinità elettive eravamo uniti solo dalla comune passione per lo scarpinare in montagna. Poi, passo dopo passo, giorno dopo giorno, siamo diventati prima compagni d’avventura, poi amici, quindi squadra affiatata dallo spirito di gruppo. Perché il Selvaggio Blu è un trekking stupendo su un percorso a tratti difficile che parte da Petra Longa e arriva a Cala Luna offrendo squarci di panorami mozzafiato su spiagge da sogno come Cala Goritzé, Cala Biriala, Cala Mariolu, Cala Sisine e pareti a strapiombo sul mare. Ma, oltre a essere suggestivo e ardito nello stesso tempo, è anche qualcosa di più: un viaggio ancestrale, un’esperienza profonda.
Il Selvaggio Blu, con i suoi paesaggi spettacolari e le sfide impegnative, richiede ai partecipanti di confrontarsi con i propri limiti fisici e mentali. Diventa quindi un’opportunità per mettersi in discussione, per superare ostacoli che all’inizio possono sembrare insormontabili, fa capire che il modo di dire ” l’unione fa la forza” non è solo uno slogan ma è la chiave di volta per riuscire a farcela. L’abbiamo capito tutti il secondo giorno, quando l’umidità da foresta del Borneo ci faceva zampillare il sudore dai pori rendendo la camminata ancora più faticosa. E’ stato allora che uno di noi si è sentito male, il suo respiro si è fatto affannoso, i battiti hanno subito un’accelerazione preoccupante. Ed è stato allora che il far parte di un gruppo ha fatto sentire tutto il suo valore aggiunto. Sono intervenuti i due medici presenti, l’hanno fatto sdraiare, l’hanno assistito, poi d’intesa con Gigi, la nostra eccellente guida, è stato chiamato il soccorso. Quindi è arrivato un elicottero e il nostro compagno è stato imbragato, tirato su con un verricello, trasportato in ospedale. Il tutto con un’efficienza e una professionalità da medaglia al valore. Intanto però erano trascorse due ore, si stava avvicinando l’imbrunire, la strada da fare era ancora tanta, e c’era il rischio di dover attraversare un bosco al buio, in una zona impervia, su un sentiero che tirava parecchio. Allora Gigi ci ha chiesto se ce la sentivamo di accelerare il passo per arrivare prima del tramonto, anche perché poi avremmo dovuto montarci le tende in un campo dove c’erano più sassi che a Pietra Ligure. Solo che questi non erano arrotondati dal mare, ma spigolosi e contundenti come mazze medievali da guerra. Comunque sia ce l’abbiamo fatta e la notizia che il nostro compagno non aveva niente di grave ci ha risollevato il morale. Abbiamo poi saputo che si era trattato di disidratazione e che il nostro amico ci avrebbe raggiunti al rifugio.
Dal terzo giorno in poi tutto è filato liscio. Spesso camminavamo in mezzo al nulla tra ginepri contorti dal vento e dal tempo, lecci e olivastri secolari, cespugli di cisto e rosmarino selvatico, corbezzoli. L’unico rumore che si sentiva era quello degli scarponi che combattevano la loro battaglia con i sassi. Ogni tanto ci imbattevamo in qualche ovile abbandonato, testimonianza di una vita durissima, quella che conducevano i pastori in anni neanche troppo lontani.
Per raggiungere le spiagge che vedevamo sotto di noi come un miraggio siamo scesi su ardite scale di ginepro sospese sul vuoto, ci siamo infilati in stretti canalini, percorso sentieri esposti a strapiombi sul mare. Ed è in questi passaggi più impegnativi che è di nuovo entrato in azione lo spirito di gruppo. I più forti e tecnicamente preparati facevano da battistrada, poi ci prendevano i bastoncini, ci dicevano dove e come aggrapparci, dove mettere i piedi, dove passare in sicurezza. E’ grazie a loro che nessuno si è mai sentito in pericolo, non ha mai avuto paura. Così alla sera si cenava in allegria e la stanchezza si scioglieva con l’aiuto del cannonau e del mirto.
A volte si mangiava in mezzo ai boschi, su tavoli e sedili rudimentali costruiti ammucchiando sassi, perché i sassi sono uno degli elementi distintivi del territorio. Spesso mettevamo sotto i denti carne cotta alla brace. Ma una sera gli amici della Cooperativa Goloritzé, quella che gestisce il rifugio del Golgo e organizza il trekking, ci ha sorpresi e deliziati con del pesce che sapeva ancora di mare, anch’esso cucinato rigorosamente alla griglia.
In questo trekking spartano in mezzo alla natura ci siamo sentiti un po’ selvaggi e un po’ re, come quando dopo due notti in tenda si pernottava in rifugio e una doccia calda pareva un lusso sibaritico. Anche arrivare a una spiaggia, fare una nuotata, distendersi un’ora al sole ci ha fatto provare la soddisfazione e il piacere delle cose conquistate con fatica. E quando dopo essere arrivati a Cala Luna abbiamo fatto ritorno alla base in gommone fino a Santa Maria Navarrese non credevamo ai nostri occhi nel vedere dal mare i posti dove eravamo passati, come se avessimo conteso alle capre il loro regno.
Concludendo, il Selvaggio Blu è molto più di un semplice trekking; è un’esperienza che celebra la bellezza della natura e, nel contempo, mette alla prova la nostra resilienza. Attraverso passaggi impervi e strapiombi a picco sul mare, inerpicandoci su scale di ginepro e camminando per ore sui sassi ci siamo riconnessi con il nostro lato più autentico e con il mondo naturale in cui eravamo immersi. Questo trekking insegna a stringere i denti e fa capire come spesso siamo circondati dal superfluo. È un richiamo alla nostra essenza più profonda, costituisce un’opportunità di avventura che rimarrà impressa per sempre nei ricordi.